Alla fine di questo corso di critica culturale, come vi ho accennato ieri, dovremmo arrivare al punto di dire: “Meno male che non sono un persona di cultura”. Solitamente la gente si offende quando gli si dice: “Tu non sei una persona di cultura”. Invece noi dovremmo arrivare a dire: “Meno male che non sono una persona di cultura, sennò povero me”, perché cultura fa rima con paura, questo è il concetto.
Come dissi la scorsa volta, dalla domanda sul senso della morte nasce la filosofia, perché la filosofia verte, gira e rigira sempre sul tema della morte, sta nelle vicinanze della morte e ci gira sempre attorno. Tant’è vero che il filosofo Platone diceva che tutta la filosofia non è altro che una preparazione alla morte e Platone di filosofia se ne intendeva abbastanza. Filosofare significava, secondo Platone, prepararsi alla morte, perché non c’è niente di più vero della morte.
Invece, dalla domanda sul senso della vita nasce la cultura, la cultura che spesso viene spacciata per filosofia, la filosofia di vita, ma che in realtà non ha niente a che fare con la filosofia. Sono due esperienze e due stili di vita diversi, anzi opposti, perché la filosofia ha a che fare con la morte, la cultura ha a che fare con la vita.
Perciò bisognerà pur decidersi un giorno o l’altro se intendiamo essere filosofi o se intendiamo essere culturali. Bisogna pur decidere, perché tenere insieme le due cose è impossibile, è assurdo, perché la cultura dal punto di vista della filosofia è ridicola e la filosofia dal punto di vista delta cultura è ridicola.
È chiaro che c’è un’opposizione tra la vita e la morte e tutto ciò che ha a che fare o con la vita o con la morte si oppone. Gli uomini che esercitano veramente la filosofia non possono per alcun motivo essere uomini di cultura; gli uomini di cultura non possono essere mai dei veri filosofi. Gli uomini di cultura sono quelli che voi vedete solitamente in televisione, quelli che vanno in televisione per parlare di sé stessi: non di sé stessi e di quello che sono veramente, ma di tutti gli sforzi che fanno per coprire e per nascondere sé stessi, perché questa è la cultura.
“Che senso ha la vita? Che senso ha il vivere?”. Questa è la grande domanda che tutti ci facciamo e proprio perché non riusciamo a trovare alcun senso alla vita, allora ci mettiamo a fare cultura.
Ora, questa domanda “Che senso ha la vita?” ci dice, appunto, che la vita non ha alcun senso, la vita non ha senso. Riuscite voi a trovare un senso alla vita? Siate onesti! Qualcuno di voi ha trovato mai un senso per la sua vita, per il suo vivere?
Non mi dite le solite caricature: “io vivo per fare del bene agli altri”, perché queste sono sciocchezze, non prendiamoci in giro.
Avete mai pensato a quale può essere il senso della vita? Avete mai riflettuto su questo? Che senso ha vivere? La vita ha un senso? Oppure l’unica cosa sensata è farsi la domanda e non aspettare alcuna risposta? Perché il senso della vita è la domanda, il non-senso è la risposta. Qualsiasi risposta si dia alla domanda “qual è il senso della vita?”, ricordatevi, sarà sempre un non-senso.
“Ma vivere è importante, vivere vuol dire farsi una famiglia!”. Possibile che crediate a queste favole, al fatto che vivere voglia dire farsi una famiglia? Oppure: “vivere vuol dire riuscire nel lavoro, realizzarsi nel lavoro!”. Ma ancora credete a queste cose?! La mamma non vi ha detto niente a proposito? “Vivere vuol dire aiutare il prossimo!”. Ma state scherzando? Qualsiasi risposta si voglia dare alla domanda “che senso ha la vita?”, appena ci pensate un po’, vi rendete conto che non ha senso e non ha senso perché è la vita stessa che non ha senso.
L’insieme delle risposte che si pretende di dare alla domanda “Che senso ha la vita?”, forma le diverse culture. Questa è la cultura. La cultura è la risposta non-senso che diamo alla domanda “che senso ha la vita?”. Soltanto in un momento di esaltazione si può pensare che la vita abbia senso, ma non appena cominci a pensare un po’, ad essere un po’ spassionato, ti rendi conto che quello che tu pensavi fosse il senso della tua vita è soltanto una tua volontà di appiccicare un senso alla vita. In realtà la vita non ha alcun senso.
Avete trovato per caso qualche senso alla vita? Oppure riuscite a vivere solo perché non pensate quale possa essere il senso della vita. Riuscite a vivere ancora perché non volete dirvi chiaramente che la vita è senza senso o cercate di arrampicarvi sugli specchi per trovare un senso possibile?
Invece la filosofia fa il cammino opposto, si pone la domanda: “Che senso ha il morire?”. Il morire ha senso, perché ti libera di questo non-senso che è la vita. Ecco perché la morte è preferibile alla vita. La morte ha senso, perché smettiamo con questa storia stupida e strana che si chiama “vita”.
“Ma allora dobbiamo spararci?”. No, non siamo mica scemi? Non è un invito ad ammazzarsi, perché siamo già morti. Appena nasciamo, appena prendiamo coscienza di noi stessi, appena ci facciamo queste domande, ci accorgiamo di essere già morti. Non c’è bisogno neanche di ammazzarci, siamo già morti, perché ci rendiamo conto di quante chiacchiere e favole dobbiamo dirci per trovare un senso alla vita, pur sapendo bene che quel senso è un perfetto non-senso.
Ora, che cos’è la filosofia? È proprio preparazione alla morte, perché la morte è il grande atto liberatorio, che ti libera del non-senso della vita. Domanda: “Ma la vita non ce l’ha data Dio?”. Lasciamo stare queste immagini di Dio antropomorfiche. Siamo stati chiamati alla vita perché nostro padre e nostra madre un giorno si decisero a fare qualche cosetta, così, per i fatti loro, e poi venimmo noi sulla scena di questo mondo: loro, i genitori, ci hanno accolto e noi li ringraziamo per questo, ma, per carità, niente di più.
La cultura è proprio l’insieme dei tentativi di risposta che si vogliono dare al non-senso della vita e più se ne danno, più ci si accorge che non hanno alcun senso, tanto che alcuni vengono presi da una coazione a ripetere, cioè a trovare risposte continuamente.
Una volta chiesi ad un mio collega prete: “Scusa, perché Dio ti ha creato?”. Lui mi rispose: “Perché Dio crea per amore”. Ed io: “ma non dire chiacchiere: se tu non esistevi come faceva Dio ad amarti?”. Si ama ciò che esiste: intanto Dio può amarmi in quanto esisto. Come si fa a dire “Dio mi ha creato per amore”. Questa è una risposta, un non-senso di quelli perfettissimi. Sono queste risposte di non-senso che ci si dà continuamente per dare un senso a ciò che invece non ne ha.
Il problema non è che Dio esista, il problema è che noi esistiamo.
Noi siamo il perfetto non-senso. Io non so ancora perché esistiamo, non riesco a rispondere, non voglio dare neanche una risposta, perché ogni risposta sarebbe un non-senso, un cominciare a fare cultura.
DOMANDA: “Dice San Paolo: «La volontà di Dio è per la vostra santificazione»”.
RISPOSTA: San Paolo dice che la volontà di Dio è la salvezza dell’uomo, è la vostra santificazione. Ora, tradotto in termini moderni, “santificazione” significa “realizzazione di tutte le potenzialità”. Il grande errore è quello di tradurre in termini moderni ciò che invece non è moderno. Anche questa è cultura.
La parola “santificazione” – come la parola “Santo”, “sacro” – significa “separazione”, indica l’essere separati dal Mondo. La santità o la sacralità (l’etimo è lo stesso) è la separazione, l’essere tagliati dalla relazione con il Mondo.
DOMANDA: “Perché l’uomo ha paura della morte?”
RISPOSTA: Perché ha paura della morte? Tu hai paura della morte? Parla di te, non parlare dell’essere umano in genere! Nell’essere umano ci sono queste due tendenze: se è stato sempre abituato ad un approccio culturale, quindi costruttivo, culturale vuol dire costruttivo, è chiaro che nella morte vedrà il nulla e quindi avrà paura della morte; ma se invece avrà una visione, un approccio filosofico, nella morte non vedrà il nulla e quindi non avrà bisogno di farsi castelli in aria, costruzioni fantastiche ed altro. Tutto dipende da quell’aspetto o tendenza che ha coltivato di più durante la vita. Dipende un po’ da come ha vissuto le cose.
DOMANDA: “Ma che senso ha la morte?”
RISPOSTA: La morte è l’assoluto, la morte toglie il non-senso della vita. La morte è fine a sé stessa. La vita muore, finisce, quindi la vita ha bisogno di senso, ma la morte no.
DOMANDA: “Ma che significa il termine vita?”
RISPOSTA: Il guaio è che quando si traduce in italiano non si rispettano i termini. “Vita” ha due termini in greco: “bios” e “zoe” e sono due termini diversi. “Bios” è la vita che finisce, “zoe” coincide proprio con la morte. Sono due termini diversi. Purtroppo, in italiano, abbiano un solo termine, “vita” e allora veniamo tratti in inganno. Il problema delle traduzioni è un’ira di Dio.
Proprio sul Corriere della Sera di oggi c’è un articolo della rubrica tenuta da Alberoni ogni lunedì, in prima pagina. Oggi parlava della felicità, e diceva proprio che purtroppo la parola italiana “felicità” è falsata, perché, invece, in francese è “bonheur”, in inglese è “happiness”, parole che indicano uno stato di benessere, di contentezza; la felicità, invece, è una realizzazione totale di tutte le possibilità. Ora, questa felicità può durare un istante: il solo pensiero che possa finire toglie, appunto, la felicità.
DOMANDA: “Perché viviamo?”
RISPOSTA: Perché viviamo? E io che ne so? Che ne so perché vivi tu? Scusa se te lo dico, così trovi il senso: tu vivi perché devi morire! Quella è la cosa più importante, il resto sono tutte chiacchiere.
Sulla croce di Gesù, ecco perché è importante il rapporto della cultura con la morte, stava scritto il motivo della sua condanna: era stato condannato perché si era fatto re dei giudei. Il cartello era scritto in tre lingue: in ebraico, in greco e in latino. Qual è il motivo? Può sembrare una banalità, ma in realtà lì, sulla croce, c’erano le tre grandi culture: la cultura latina, la cultura greca e la cultura ebraica. Mancava soltanto la cultura orientale, quella estrema orientale (buddista, induista etc.), ma le tre grandi culture stavano lì sulla croce e stavano lì a condannare Gesù Cristo.
Gesù Cristo fu condannato dagli ebrei, cioè dai giudei, fu condannato dai romani, cioè dai latini e fu condannato dai greci. Le tre culture condannano Gesù Cristo, lo condannano a morte.
C’è un bel passo della prima lettera ai Corinzi, in cui San Paolo dice: “La parola della croce, della morte, infatti è stoltezza per quelli che vanno in perdizione, ma per quelli che si salvano, per noi, è potenza di Dio. Sta scritto infatti: «Distruggerò la sapienza dei sapienti e annullerò l’intelligenza degli intelligenti».
Dov’è il sapiente? Dov’è il dotto? Dove mai il sottile ragionatore di questo mondo? Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo? Poiché, infatti, nel disegno sapiente di Dio il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione. E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio. Perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini” (1 Cor 1,18-25).
Mentre i giudei chiedono i miracoli, i greci chiedono la sapienza e i romani, aggiungo io; non parla dei romani, perché non è ancora andato a Roma, parlano della legge, dice San Paolo: “noi predichiamo Cristo crocifisso”, la follia della croce, della morte.
Le tre culture, la cultura greca, la cultura giudaica, la cultura latina o romana, si fondano ciascuna su un perno, su un principio architettonico intorno al quale si costituiscono e si costruiscono: la Sapienza (cultura greca), la Potenza (il miracolo; cultura giudaica) e la Legge (cultura romana o latina)
Attorno a cosa si costruisce la cultura greca? Alla Sapienza.
Attorno a cosa si costruisce la cultura giudaica? Al miracolo, alla Potenza, alla manifestazione potente di Dio.
La cultura latina – che è forse quella più intelligente – si costituisce attorno al Legge.
Ma a cosa rispondono la Legge, la Sapienza e la Potenza (cioè il miracolo)? Rispondono alla volontà di porre un punto fermo per difendersi, per prendere le proprie difese, per resistere a ciò che l’essere umano vede: lo scorrere ineluttabile di ogni cosa, il divenire. Dinanzi al divenire continuo, dinanzi a questo mutatur continuo, bisogna trovare un punto fermo, una roccia salda sulla quale sedersi per non essere trascinati.
Per i greci il punto fermo era la Sapienza, per i giudei, o ebrei, il punto fermo era la Potenza di Dio, per i romani (molto più pratici) il punto fermo era la Legge. Attorno a questi perni si costituisce tutta la cultura, un tentativo di dare una risposta al proprio vivere, alla propria esistenza, al proprio non-senso, un tentativo di difendersi dallo scorrere ineluttabile, dal divenire.
La Sapienza, la Potenza, la Legge si chiamano – uso un termine greco – “epistème”, da cui viene la parola italiana “epistemologia”.
La parola “epistème” è composta da “epì”, che vuol dire “sopra”, e “steme”, da “istemi”, che vuol dire “stare”. Quindi, “ciò che sta sopra”, ciò che sta sopra al divenire e non ne viene travolto, perché la paura dell’essere umano è proprio questo non senso, questo nulla che minaccia ogni istante delta nostra esistenza.
Allora, bisogna trovare l’epistème, il punto fermo che sta sopra, al di sopra di tutti i flutti del divenire. Cosi nascono le culture.
Vi ho detto che la cultura induista o buddista non la interpreto come cultura, perché quel tipo di cultura taglia la testa al toro, dicendo che tutto ciò che noi siamo è soltanto un’apparenza, un’allucinazione e che quindi, mediante certe pratiche (lo yoga, la meditazione, ecc.), bisogna annullare l’“io” e la coscienza in modo tale che, annullato l’“io” e la coscienza, entriamo nel “nirvana”. Il nirvana è il nulla.
Qual è la differenza con il Cristianesimo? Il Cristianesimo vuole abolire l’“io” – l’“io” costruttivo, l’“io” farisaico -, ma sa che non può mai abolire la coscienza, perché la coscienza è sempre coscienza della differenza e della distanza dall’Eterno. Ecco perché non ritengo essere una cultura il pensiero induista, il pensiero buddista: esso è, piuttosto, una dottrina morale che cerca di annullare allo stesso tempo l’“io” e la coscienza.
La cultura greca, quella latina e quella giudaica, invece, sono delle culture vere e proprie, perché cercano di organizzare il mondo intorno a questi principi architettonici che sono la sapienza per i greci, la potenza di Dio per i giudei e la legge per i latini.
Perché sono false le culture? Una volta ammesso che la grandissima evidenza, l’evidenza irrefutabile, irrinunciabile è il divenire, questo entrare ed uscire dal nulla (divenire vuol dire venir fuori dal nulla, passare nell’essere e dall’essere ritornare al nulla), allora anche i tuoi epistèmi (la sapienza, la potenza di Dio, la legge) sono sottoposti al divenire. E che questo sia vero ce ne accorgiamo oggi.
La secolarizzazione ha fatto piazza pulita di ogni epistème, anche di Dio. A quelli che sostenevano che tutto diviene, ma che solo Dio è l’epistème che sta sopra tutto, fanno osservare che se l’evidenza è il divenire, anche Dio è sottoposto al divenire.
La legge, per esempio, che epistème è?! La legge nasconde solo gli interessi della classe dominante.
La sapienza. La sapienza è il grido di aiuto, la supplica che la paura rivolge ad un Dio inesistente.
Vi accorgete che tutte le culture sono messe in atto per la paura del divenire e tutto ciò che nasce dalla paura, tutto ciò che nasce dalla volontà di vincere questa paura è sottoposto, esso stesso, al divenire, all’oscillare fra l’essere e il nulla.
Non ci sono epistèmi, questa è la secolarizzazione!
“Secolarizzare” vuol dire “ridurre al secolo”. La parola latina “seculum” vuol dire “mondo”, quindi “secolarizzare” vuol dire ridurre tutto alla mondanità. “Secolarizzazione” vuol dire “mondanizzazione”: tutto ciò che è stato inventato per “epistemizzarsi”, per mettersi al di sopra di questo uscire ed entrare dal nulla è sottoposto anch’esso al divenire. Per questo tutte le costruzioni culturali sono delle pie favole, delle bugie che ci si racconta per non stare male, le favole che si raccontano ai bambini per farli dormire un po’ più tranquilli.
Dinanzi alla croce di Cristo i giudei che cosa volevano? Una manifestazione di potere. Gli dicevano: “Il Cristo, il re d’Israele, scenda ora dalla croce, perché vediamo e crediamo” (Mc 15,32). Gli chiedevano di fare il miracolo, chiedevano la potenza.
Quando San Paolo andò all’Areopago di Atene ad annunciare il messaggio di Gesù (At 17,22-34), gli ateniesi prima lo ascoltarono, poi, quando San Paolo cominciò a parlare di resurrezione dei morti: “alcuni lo deridevano, altri dissero: «Ti sentiremo su questo un’altra volta»” (At 17,32). Perché gli risposerò così? Perché quella non era sapienza. Avranno pensato: “questo qui viene dalla Palestina per venire a insegnare la sapienza a noi greci, a noi che siamo i maestri della sapienza”.
La sapienza nasce dalla paura, ed è un tentativo di arginare questa paura, la paura del divenire.
Ora, qual è l’inconscio dell’Occidente, l’inconscio alla base di ogni cultura? È proprio il divenire, è questa angoscia dell’essere che sfuma, che se ne va e che tu non puoi far niente per trattenere. Questo è l’inconscio dell’Occidente, inconscio non perché non lo possiamo conoscere, ma perché non lo vogliamo conoscere, non vogliamo dire che le cose stanno così. Proprio questo è l’inconscio sia della cultura greca, sia della cultura giudaica, sia della cultura latina e sia – purtroppo – di molta cultura cristiana.
Questo è l’inconscio dell’Occidente. L’inconscio dell’Occidente è il divenire e l’angoscia del divenire.
Tutte le culture sono sempre culture di morte, cioè culture messe in atto per non guardare ciò che invece la filosofia vera guarda, perché la filosofia eterna nasce dal terrore, la filosofia moderna nasce dal dubbio. Infatti, quando si dubita ci si lascia uno spazio in cui potersi muovere più o meno bene.
DOMANDA: “Cosa intendi esattamente per «filosofia»?”
RISPOSTA: Per “filosofia” intendo questa passione per la verità, mentre la sapienza greca consiste proprio in questa volontà di epistème per tenere le distanze, per tenere a bada questo flusso continuo del divenire.
Ecco perché intendiamo esercitare una critica alla cultura. Per cui vedremo – ma ce ne stiamo già rendendo conto – che la cultura è solo un tentativo per rabbonirci, per dirci qualcosa di dolce per farci dormire meglio la notte. A questo punto è meglio non essere uomini di cultura: se si vuole dormire la notte è meglio prendersi un Tavor, senza il bisogno di raccontarsi queste stupidaggini.
La coscienza – ve l’ho detto e ve lo ripeto – non è l’“io”. L’“io” è diverso dalla coscienza. La coscienza annulla l’“io”, perché chi ha la coscienza non dice “Io” e se a volte lo dice, lo dice solo per comodità linguistica; così come l’“io” annulla la coscienza, perché appena la coscienza spunta l’“io” finisce. Appena la coscienza spunta ci viene da ridere, si comincia a ridere dei problemi. Fino a quando c’è l’“io”, invece, non si ride, si è seri, perché l’“io” costruisce la cultura.