Sapete che Santo è oggi? S. Antonio Abate, protettore dei porci! E qui c’è già il primo errore, perché che S. Antonio Abate sia il protettore dei porci, o degli animali in genere, è un traffico culturale, cioè la cultura ha trafficato intorno alla figura di S. Antonio Abate.
S. Antonio Abate fu il fondatore del “monachesimo”. Siamo – da quello che risulta – nel 200-250 d.C.: ispirato dalle parole di Gesù “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi” (Mt 19,21), e da un’altra espressione evangelica che dice “Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?” (Mt 6,31), rapito da questo messaggio evangelico, lasciò la città in cui si trovava (la regione è l’alto Egitto) e si ritirò nel deserto. Lì visse la sua prima esperienza monastica. La parola “monastico” deriva da “monos”, che vuol dire “solitario”.
Il fatto che S. Antonio Abate sia diventato protettore degli animali in genere e soprattutto dei porci, è una storiellina della cultura non cristiana, perché dovete sapere che la cultura non è mai cristiana.
Ogni tipo di cultura è la negazione della fede. La fede – ripeto – è immediatezza, la fede ha a che fare con le idee materiali, con le idee che non puoi toccare e sfiorare, che non puoi utilizzare minimamente: l’idea di Dio (o l’idea di Morte), l’idea di Esterno e l’idea di Interno. Sono idee materiali, cioè immediate, idee che non puoi mettere in circolazione, non puoi girarci attorno, non puoi metterle in commercio, con cui non puoi trafficare, non puoi portarle in “fornicazione”. Ricordo che nelle confessioni fatte nei paesi, le vecchiette spesso mi dicevano: “ho fornicato con il pensiero”; ed io rispondevo: “ma cosa hai pensato?”; e la vecchietta mi diceva che aveva pensato male di quella e di quell’altra, che aveva fatto tanti pettegolezzi nella mente, tra sé e sé. Mi resi conto che per loro “fornicazione” significava proprio costruire delle storie attorno a degli oggetti, a delle persone, a delle cose: usavano – stranamente – la parola “fornicazione” nel senso etimologico più vero. “Fornicazione” intesa come traffico mentale.
Ogni cultura è una “fornicazione”, perché prende degli oggetti immediati, li toglie dalla loro immediatezza e ci costruisce attorno delle storie, delle telenovele.
Quel maialino che vedete raffigurato bello, docile, ai piedi di S. Antonio Abate, non è per niente un maiale bello e docile. Nelle prime iconografie di S. Antonio Abate quel maiale non era sorridente e docile: aveva, invece, un ghigno. Quelli che dipingevano queste prime immagini di S. Antonio Abate volevano ricordare, con la figura del maiale, le tentazioni impure che S. Antonio ebbe nel deserto, quindi il maiale era la raffigurazione del diavolo, cioè dello spirito immondo, dello spirito impuro che tentava continuamente S. Antonio. Questo maiale, poi, dall’avere un ghigno, da essere la raffigurazione dello spirito immondo, ha cominciato a diventare docile, bello e tranquillo, fermo ai piedi di S. Antonio in attesa della sua benedizione.
Chi ha trafficato in questo modo intorno alla figura di S. Antonio Abate? Ha trafficato la cultura del tempo. I proprietari di maiali del tempo, gli allevatori di maiali, avevano bisogno di un Santo che li proteggesse. Ora, perché si festeggia a gennaio? Una signora del pubblico, che insegna ad agraria, mi dice che i maiali si macellano a gennaio, perché questo mese è l’ideale per avere una buona macellazione e della buona carne.
Quindi, la “cultura dell’allevamento” ha preso questa figura di S. Antonio Abate, l’ha fatta trafficare e ci ha costruito sopra una favola, la favola di S. Antonio Abate protettore dei maiali. Ma anche gli allevatori di pecore volevano un protettore, e gli allevatori di cani, ecc. Non c’è problema! S. Antonio Abate protegge tutti gli animali! Vedete come opera e come agisce la cultura – intesa come traffico attorno alle cose.
La cultura è utilizzazione di oggetti e di persone. Invece di rispettare oggetti e persone, invece di lasciare le cose nella loro immediatezza, si pongono gli oggetti e le persone in una storia, s’inventa una storiella: così nasce la cultura.
Per cultura – ripeto – non si deve intendere l’insieme del meglio che l’essere umano ha prodotto nel corso dei secoli, ma la volontà di interpretazione, la volontà di interpretare le cose, di aggiungere, di appioppare un senso alle cose che già hanno un loro senso. Ogni cultura parte sempre da una mancanza di rispetto per cose, oggetti, persone ed eventi, perché ciò che disturba l’essere umano, ciò che l’essere umano non può sopportare è il trovarsi dinanzi a qualcosa su cui non può mettere le mani.
Per questo vi dicevo che ogni cultura ha sempre alla base una mentalità tecnica. La tecnica consiste proprio nel non arrendersi alla immediatezza delle cose e nel tentativo di dare a queste cose un nuovo significato, voluto da noi, una volontà di interpretazione. Questa volontà di interpretazione è una volontà di potenza, di potere, perché soltanto se do ad oggetti, cose, avvenimenti, il senso che io voglio, solo in questo modo posso dirigere, manipolare, guidare, controllare le cose, perché sono cose che io stesso ho fatto e costruito.
Questa è la grande verità, verità storica-esistenziale, che il grande filosofo italiano Gian Battista Vico delineava. Alla domanda “quali sono le scienze vere, le scienze esatte?”, a tutti viene da rispondere la fisica, la chimica, la botanica, la zoologia, le scienze naturali, la matematica (ma la matematica è un linguaggio, non una scienza. Per i matematici platonici era una scienza, perché i numeri erano considerati entità a sé stanti; per chi la usa, invece, nelle scienze fisiche, naturali, la matematica è soltanto un linguaggio, è una logica.). Per scienza s’intende “cognitio rerum per causas ultimas”, cioè “conoscenza delle cose attraverso le cause ultime”, quelle più vere, più profonde. Gian Battista Vico, invece, sosteneva che non è possibile conoscere attraverso le cause più profonde le cose che non abbiamo fatto noi: possiamo conoscere soltanto le cose che abbiamo fatto noi; della natura non possiamo avere mai scienza, perché la natura non l’abbiamo fatta noi. La chimica, la fisica e tutte queste scienze naturali, che poi hanno avuto uno sviluppo notevolissimo, e che pensiamo siano le scienze esatte, secondo Gian Battista Vico non erano per niente esatte, perché avevano come oggetto un qualcosa che non era stato fatto dall’essere umano.
C’è una sola scienza possibile – diceva Vico -, un unico oggetto di scienza possibile per l’uomo. Sapete qual è? Quella che non viene ritenuta una scienza esatta: la Storia. Perché la Storia? Perché la Storia – diceva Vico – la fanno gli esseri umani. Solo la Storia è scienza, perché i soggetti della Storia sono gli esseri umani. Le scienze cosiddette esatte, le scienze naturali non sono per niente scienza, perché non è stato l’uomo a produrre, a fare la natura.
Sembra una cosa strana, ma in realtà ciò che diceva Gian Battista Vico è il punto a cui sono approdate, oggi, tutte le scienze “esatte”, naturali. Le scienze cosiddette esatte, naturali, ormai viaggiano soltanto per ipotesi, cioè non esistono più delle leggi certe, sicure: sono leggi ipotetiche, provvisorie, rivedibili, ritrattabili.
Come vedete, la critica che Gian Battista Vico, grande filosofo italiano, faceva alla presunta esattezza delle scienze naturali e che a suo tempo sembrava un po’ fuori luogo, non è altro che il punto a cui è approdata oggi la scienza. Il sapere scientifico oggi è puramente ipotetico, revisionabile.
La frase famosa di Gian Battista Vico era: “verum factum”, cioè “il vero è ciò che è stato fatto”. Fatto da chi? Dall’uomo! La natura non l’abbiamo fatta noi, perciò della natura possiamo avere scienza. L’unica scienza è la scienza storica.
Con Gian Battista Vico la Storia ha cominciato ad avere sempre più importanza, fino al punto in cui il concetto di Storia è entrato talmente nella cultura occidentale da non poterne più fare a meno: tutto, ormai, è sottoposto alla Storia, al divenire, un divenire continuo, sempre revisionabile.
Il concetto di Storia – ripeto – nasce dall’impossibilità dell’essere umano di fermarsi, di tenere ben ferme quelle che sono le idee immediate, materiali.
La volta scorsa vi ho detto che voi venite qui non per imparare a risolvere i vostri problemi, ma per imparare a non farvene altri, e questa è un’affermazione su cui è necessario ritornare.
Che cos’è un problema? La parola “problema” deriva dal greco “pro-bállein”, che vuol dire “gettare in avanti”. Quindi, farsi un problema significa gettare in avanti: tutti i nostri problemi derivano proprio dal fatto che noi non intendiamo accettare certe idee immediate, materiali, ma rifuggiamo da queste idee immediate e materiali gettando in avanti qualcosa, creandoci un problema. Problemi non ce ne faremmo più se rimanessimo fedeli a quelle che sono le idee immediate e materiali, non utilizzabili, non manipolabili. Tutto il processo storico, tutta la cultura consiste in un problema continuo, in un gettare qualcosa sempre in avanti.
Ci creiamo i problemi perché abbiamo paura di ciò che è immediato, irreversibile, di ciò contro cui possiamo scontrarci, ma che non possiamo per alcun motivo manipolare. Ci creiamo i problemi perché non sappiamo arrenderci a ciò che è vero. Se provassimo ad arrenderci, a consegnarci a ciò che è vero, immediato, materiale, non ci faremmo più problemi, avremmo solo delle difficoltà.
È diversa la difficoltà dal problema. La difficoltà nasce proprio dalla coscienza di trovarsi dinanzi a qualcosa che non può essere usato e manipolato. La difficoltà sta sia nel cercare di capire quanto più è possibile l’immediatezza, la materialità, la non disponibilità di certe idee, sia nell’arrendermi a queste idee. Capisco quando qualcuno mi dice: “io ho difficoltà ad accettare queste cose”; lo capisco bene, lo capisco perché accettare un qualcosa che non puoi cambiare in nessun modo è veramente un atto di grande eroismo.
Gesù sulla croce non si arrende alla morte. In un primo momento dice: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mc 15,34; Mt 27,46); sta creando un problema, cioè non si arrende alla necessità, al fatto della morte. Così, anche nell’orto degli ulivi, Gesù dice: “Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice!” (Mt 26,39). Gesù mostra come la natura umana viva in questa difficoltà di accettare ciò che non si può cambiare. Gli resta questa difficoltà – “…perché mi hai abbandonato?”: con questa domanda Gesù offre uno spazio in cui poi deve inserirsi la risposta del Padre. Il Padre gli deve spiegare perché deve morire, perché è necessario che muoia.
Così comincia la telenovela. Come il regista Martin Scorsese, che nel film “L’ultima tentazione di Cristo” fa fare a Gesù, mentre stava sulla croce, una bella telenovela mentale (la storia con la Maddalena, ecc.).
Quando chiediamo il perché, stiamo non accettando l’ineluttabilità di un’idea materiale, che nel caso di Gesù era la morte: in queste circostanze la domanda crea sempre uno spazio, il futuro. Il futuro è uno spazio che viene creato da domande, perché poi a queste domande si diano delle risposte e s’imbastiscano delle storie per poter andare sempre avanti.
Il Padre, invece, – intelligente – non risponde, è muto. Alla domanda di Gesù – “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?” – segue il silenzio, perché di fatto Gesù è stato abbandonato. E allora, dopo questo moto di resistenza a ciò che è ineluttabile (la morte), ecco la risposta di Gesù, che è di accettazione. Gesù si consegna al destino ineluttabile, con le famose parole: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46), cioè nelle tue mani metto la mia storia, mi abbandono a te, non esisto più.
In quelle parole di Gesù c’è la resistenza prima, che crea la domanda e vuole creare un problema, e l’accettazione della fede poi.
Anche noi spesso facciamo a Dio domande del tipo: “perché muoiono i bambini?” “perché c’è il male?”, “perché capitano tutte a me?”. Sono tentativi di creare un problema, di creare una storia. La tendenza a non arrendersi mai è strutturale dell’essere umano.
Purtroppo, questo processo della cultura non è presente soltanto in ambito laico, ma anche in ambito ecclesiastico. Voi pensate un po’ a tutta la discussione che hanno fatto ultimamente sull’opportunità che il Papa dia o no le dimissioni. Perché è stata fatta tutta quella discussione? Perché se il Cristianesimo più che essere fede nel senso di evidenza, di idee materiali, immediate, contro le quali ti devi scontrare e che non puoi manipolare, viene ridotto a Storia e a cultura, è chiaro che un uomo vecchio, di 80 anni, acciaccato, non può portare addosso il peso di conciliare culture disparate. Perché, sappiatelo, oggi ognuno si fa la sua cultura, ognuno si fa la sua fornicazione mentale, tanto che, in occasione dell’anno giubilare, è stato istituito nel Vaticano un “ufficio d’inculturazione”.
Che cos’è l’“inculturazione”? È lo studio delle modalità migliori per portare il Cristianesimo nelle varie culture. Avete sentito bene?! Il Cristianesimo deve andare a coniugarsi con le varie culture, deve entrare in tutti questi traffici mentali, perché – pensate un po’ – esiste una teologia asiatica, una teologia africana, una teologia tedesca, una teologia francese, una teologia latino-americana, una teologia della donna, ecc. Insomma, esistono tanti tipi di teologia, che altro non sono se non racconti culturali. In che cosa consistono questi racconti culturali? Consistono nel prendere qualche verità del Cristianesimo e, invece di sbatterci la testa contro, nel fare traffici mentali attorno a queste verità. Così si costruisce tutto un racconto culturale, che va sotto il nome di “Teologia”, ma che di teologia non ha niente, perché la vera teologia è la resa incondizionata che l’essere umano fa davanti all’idea di Dio.
Come si fa a tenere insieme tutte queste culture, che poi sono contrastanti? Come deve essere fatta quest’inculturazione? Prendiamo, per esempio, la cultura africana. In Africa è molto diffusa la poligamia, che è ritenuta un fatto positivo. Ora, come deve essere inculturata la fede cristiana, che prevede un matrimonio unico ed indissolubile, nella cultura africana? Deve prevalere la cultura o la fede? Non si capisce! Perché se prevale la fede non c’è più rispetto per la cultura e se prevale la cultura non c’è più rispetto per la fede. Oppure si può dire: “questo elemento culturale va rimosso, va tolto di mezzo, perché non è d’accordo con la fede”. Ma quest’istanza che dice ciò che della cultura va o non va, viene sempre dalla fede.
Crea dei problemi molto grossi questa storia dell’inculturazione. Per questo è necessario capire quali sono le matrici delle culture e far capire che il Cristianesimo è un qualcosa, un modo di pensare che sta al di là, al di sopra e contro ogni cultura, perché ogni cultura è un traffico, un commercio mentale. Questa è l’essenza della fede cristiana.
Voglio leggervi ciò che ha scritto a tal proposito un teologo italiano, Bruno Forte, che è stato membro della commissione incaricata dal cardinale Ruini per il progetto culturale – l’inculturazione, ecc. Gli fanno la domanda: “Il Vaticano teme le forze centrifughe?” (le forze centrifughe sono le forze delle culture); risponde Forte: “Questo è sempre un rischio, ma di per sé la teologia africana e quella latino-americana, la teologia indiana, attenta al rapporto con le altre religioni, la teologia della prassi, la teologia delle donne, sono fenomeni positivi. Il problema nasce quando il rapporto, appunto, in un determinato contesto, viene assolutizzato e impedisce la comunicazione con il linguaggio di fede all’interno dell’unica Chiesa. Guai se il particolare perde la tensione universale”. Questo è un giochetto, un imbroglio, perché se mi dici che c’è una teologia della donna, non puoi, poi, venirmi a dire che il particolare si può mettere contro l’universale. Se mi dici che esiste una teologia latino-americana, non puoi venirmi a dire che questa teologia è un rischio per il concetto universale della fede. “Che nei prossimi anni si possano verificare spaccature all’interno della Chiesa? Nel profondo credo di no: ad ogni credente sta a cuore la causa di Gesù Cristo. Alla fine, è importante ricondurre ogni problema alle sorgenti della fede: la parola di Dio, i sacramenti, che alimentano l’unità della fede. Ma le tensioni esistono. La dialettica tra globalizzazione e localismi è ciò che fa l’unità della Chiesa. In accenni diversi, in teologia, sono una ricchezza”. Cioè, tutte queste costruzioni culturali sono – secondo Bruno Forte – una ricchezza, mentre non si rende conto che sono frutto di quella svolta antropologica di cui vi parlavo.
Che cos’è la svolta antropologica? È quel modo di pensare secondo cui Dio è solo una funzione del pensiero umano. Dio serve all’uomo per completare una costruzione, un racconto mentale che si è fatto, in cui l’uomo si trova al centro.
Il problema latino-americano è al centro? Allora mi costruisco un Dio che risponda al bisogno del popolo latino-americano. Così anche per la teologia indiana, per la teologia della donna, ecc. Dio diventa una funzione importante per sostenere la tesi dell’uomo. L’ipotesi di fermarsi, di accettare, di arrendersi di fronte a quest’idea materiale, immediata di Dio, qui non è neanche sfiorata: si tratta di costruirsi un Dio a propria immagine e somiglianza.
Domandano a Forte: “Qual è il ruolo del Papa?”. Risponde: “Giovanni Paolo II ha interpretato il bisogno di unità della Chiesa, incentrato nel cuore del messaggio «La fede di Dio»”.
Ora, voi capite che per fare tutto questo lavoro nella Chiesa, per tenere insieme questa dialettica tra universale e particolare, è chiaro che ci sia bisogno di un uomo forte, perché un vecchio di 80 anni, stanco, lacerato fisicamente – per fortuna non mentalmente – non ce la può fare, è impossibile. Difatti l’arcivescovo di Magonza, Lehmann, sostiene che il prossimo Papa deve essere un uomo forte, perché la Chiesa deve essere un’agenzia interculturale e quindi deve saper badare a tante cose, deve saper tenere sempre su questa dialettica tra particolare e universale.
Quindi – secondo questo vescovo -, il Papa non è più il testimone della fede, colui che dinanzi a queste idee materiali – Dio, Gesù, la sua morte, la sua resurrezione – si arrende, ma deve stare a contrattare e a fare compromessi tra tutti questi racconti culturali, dandone un po’ questi, un po’ a quelli altri e un po’ a quegli altri ancora.
È chiaro che si tratta di un lavoro stressante. Un’agenzia interculturale non è mica cosa da poco: ci vuole un Papa forte, ci vuole uno staff molto aperto, molto dialogante! Ma tutto questo è a danno della fede, che, invece, è immediatezza.
Una delle risposte che ritengo più interessanti a questa richiesta – la richiesta di un Papa forte, di polso, capace di ascoltare tutte le voci del mondo – è venuta da uno scrittore cattolico, Vittorio Messori. Vi voglio leggere alcuni passi tratti da un suo articolo apparso sul Corriere della Sera di ieri: “E se anche le condizioni di salute di Giovanni Paolo II fossero peggiori e se, in futuro, dovessero peggiorare, nulla si capirebbe del problema per la Chiesa stando dal punto di vista “del mondo”.
Questo applica al Papa (né può fare altrimenti, lo si è visto anche in questi giorni) le sue categorie, quelle che valgono per imprenditori, per politici, per uomini e donne di ogni potere e di ogni responsabilità. È doveroso. Ma è doveroso anche avvertire che, rispetto alle tavole di valori del “mondo”, il Vangelo è un universo capovolto, un universo dove sono chiamati beati i poveri, gli ignoranti, gli emarginati, i malati, i perseguitati, i sofferenti di ogni tipo.
Di fronte a chi, magari anche nella Chiesa, sostiene che questa “ha bisogno di un Papa forte, vigoroso, fisicamente gagliardo”, il credente sente levarsi la voce di Paolo di Tarso. Questi rivolgendosi ai Corinti confida di aver più volte pregato il Cristo di liberarlo dalla malattia. Ma, prosegue, “Egli m’ha detto: «Ti basta la mia grazia; la sua potenza, infatti si manifesta pienamente nella debolezza»”. Dunque, ne conclude l’apostolo, “mi vanterò volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza Cristo”. Già nella lettera precedente agli stessi abitanti di Corinto, Paolo aveva avvertito: “Ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini”.
Nella prospettiva del credente, il Papa, chiunque egli sia, prima d’ogni altra cosa è un mistero: il mistero di un Dio che non ha voluto far tutto da solo, ma che ha voluto aver bisogno degli uomini. Di un uomo, innanzitutto, che fosse li suo “vicario” in Terra, che lo rappresentasse fino al suo ritorno. Ma questo Dio di cui è vicario il vescovo di Roma (e pastore della Chiesa universale), entrando nella storia ha assunto le sembianze di un tal Gesù, ebreo, profeta fallito, irrilevante per gli antichi storici “seri”, che difatti non lo citano, giustiziato in pubblico con la morte vergognosa riservata agli schiavi. E poi risorto sì, ma nelle tenebre della notte, e manifestatosi solo ai discepoli, chiedendo loro di annunciarlo non con l’evidenza del Dio onnipotente, ma con quella che sempre Paolo chiama “la stoltezza della predicazione”. E sarà proprio quel Risorto furtivo che rivolgerà a Pietro (di cui ogni Papa, per la fede, è successore) parole che, in questi giorni molti credenti hanno riletto con emozione: “In verità ti dico: quand’eri giovane, ti cingevi la veste da solo e andavi dove volevi. Ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani e un altro ti cingerà la veste…”.
Se è lecito confidarlo: il ricordo di quest’annuncio di Gesù al suo primo vicario mi è riemerso quasi con violenza quando una telecamera ha mostrato il Papa, che già fu nuotatore, sciatore, atleta, tirato ora a braccia, con le membra irrigidite e la fissità nel volto, su una sorta di carretto lungo la navata di San Pietro: “Quando sarai vecchio, tenderai le tue mani…”. Ma non è proprio in questa debolezza che si manifesta la forza, nel mondo scandaloso, alla rovescia, del Vangelo?”
Se il Papa è colui che testimonia la fede sino alla morte, allora questo Papa va benissimo: per quale motivo deve essere cambiato a favore di un uomo forte? Qual è il motivo? Il motivo sta nel fatto che abbiamo creduto, o ci hanno fatto credere, che la Chiesa deve farsi carico della responsabilità di tutto il Mondo, della Storia. Hanno voluto mettere addosso alla Chiesa la croce della Storia, di questa invenzione puramente umana che è la Storia.
L’uomo diventa saggio solo quando si scrolla dalle spalle la responsabilità della Storia. Purtroppo, la Chiesa si è presa questo peso, questa responsabilità della Storia. Ecco perché adesso gli viene un po’ difficile scrollarsi di dosso questo peso: bisognava pensarci un po’ per tempo, pensare a tutte le conseguenze.
Purtroppo, la Chiesa, con tutta la teologia che ha sviluppato, ha messo al centro questo tema della Storia. Mi fanno crepare di rabbia quando mi dicono: “Dio si è fatto Storia”. Ma dove sta scritto! Nel Prologo del Vangelo di S. Giovanni c’è scritto: “cai o logos sarx egheneton” (Gv 1,14), che tradotto vuol dire “il Verbo appare come carne”. “Il Verbo – cioè Gesù – appare come carne” diventa “Dio si è fatto Storia”: ma se la Storia è il tentativo dell’essere umano di non arrendersi all’evidenza, alle idee materiali, immediate, se la Storia non è altro che un insieme di problemi che si gettano sempre avanti perché non si sa che fare, perché se non ci si crea problemi non ci si sente vivi! Invece di cogliere questo supremo paradosso del Cristianesimo e cioè il fatto che il “Logos” (ciò che tiene insieme tutte le cose) appare come “sarx”, come “carne”, cioè come ciò che è spezzettato, frammentato (la “carne” non è il “corpo”: la “carne” è il corpo spezzettato, è il corpo frammentato), si stravolge il significato di quelle parole e si afferma che “Dio si è fatto Storia”.
Perché il Logos appare come frammentazione, come carne? Perché attraverso queste spaccature, queste lacerazioni della carne di Cristo, possiamo vedere cosa c’è veramente: possiamo vedere che la Storia dell’essere umano non è altro che un inganno continuo, un cimitero di esperienze. Il Logos si manifesta come carne, come frammentazione, per svelare tutta la falsità della Storia, infatti dice S. Giovanni: “…il mondo fu fatto per mezzo di lui, eppure il mondo non lo riconobbe. Venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto. A quanti però l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio” (Gv 1,10-11-12). A quelli che l’hanno accettato, ha dato il potere di diventare non uomini, ma figli di Dio, cioè di superare tutta questa falsità della Storia, per diventare figli di Dio, per consegnarsi, arrendersi a Dio: questo è il mistero della chiarezza della fede cristiana.
Ora, il fatto di aver insistito sulla Storia, il fatto di prendersi sulle spalle la responsabilità della Storia è qualcosa che non spetta per niente alla fede cristiana. La fede cristiana è critica della Storia.
È una cosa che mi fa dispiacere, negli incontri con gli altri sacerdoti e laici della vicaria (la “vicaria” è un insieme di chiese confinanti), notare l’angoscia di tanti miei confratelli che sentono molto sulle spalle questo peso, questa responsabilità del Mondo, della Storia, del territorio. La sentono talmente tanto, che stanno in uno stato di depressione continua. Perché? Perché vorrebbero essere presenti in tutto il territorio. Si chiedono: “Come possiamo fare per essere presenti su tutto il territorio?”, “Come possiamo fare per arrivare a tutti?”. Un prete una volta rispose: “noi dovremmo fare come fanno i testimoni di Geova!”.