Dopo alcuni anni di esegesi biblica tenuta nella nostra parrocchia ed indirizzata all’uso appropriato o meglio alla traduzione dal greco di molte parole usate nella sacra scrittura, quest’anno anche nella Chiesa si riscontra una voglia di cambiamento, voluta dal Papa Benedetto XVI, dai riformatori della liturgia.
Un esempio ci riconduce allo Spirito Santo, finora definito spirito consolatore, che ritorna ad essere chiamato Spirito “Paraclito”, come è più giusto che sia. In greco “paraclitos” significa avvocato, Spirito che giudica il mondo, Spirito di difesa per il cristiano che vive nel mondo, ma non appartiene al mondo, che deve essere sempre sottoposto al giudizio da parte del cristiano, alla luce del Vangelo e della parola di Dio.
Traducendo in latino paraclito si è usato il termine consuleo che significa dare un consiglio e non consolatore come poi è stato tradotto in italiano, trasformando la nostra religione cristiana in una religione dei buoni sentimenti, delle emozioni, cioè della consolazione.
Il cristianesimo è una fede per coraggiosi, per i “violenti”, dice Gesù, di coloro che sanno affrontare il combattimento spirituale contro il proprio io costruito secondo la mentalità del mondo. Il giudizio è sempre un atto di intelligenza, non arrivarci significa mortificare la propria intelligenza.
Il giudizio cristiano non è mai fine a sé stesso ma ha la finalità di fare aprire gli occhi, di smascherare la nostra struttura umana che si costruisce secondo le categorie del mondo ignorando la luce della parola di Dio.
Quando Gesù diceva “non giudicate per non essere giudicati” intendeva dire “non condannate” cioè la condanna ti destina ad essere sempre quello che sei adesso e questa condanna preclude l’uomo dalla conoscenza della sua natura e di conseguenza dal desiderio di conversione, di cambiamento, di maturazione della sua interiorità secondo Cristo.
Se siamo incoscienti, ciechi nella nostra ignoranza perché privi di giudizi, in quanto omologati al mondo, restiamo bloccati, ripiegati su noi stessi, sonnambuli e sempre più confusi e disorientati. Dentro di noi è sempre forte il desiderio di eterno, di Dio, in quanto è la prima necessità dell’essere.
Per una retta esegesi non basta conoscere i vari saperi, storici, linguistici, teologici, psicologici ma è necessario un approccio filosofico o meglio ontologico (dell’essere che si svela da sé, di ciò che è immediato, necessario, che se lo neghi ti contraddici).
Nella nostra cultura occidentale ciò che comanda è il “volontarismo” al posto dell’ontologia. Il volontarismo, quell’atto di prepotenza che impedisce alle cose di raccontarsi, un pregiudizio che ostacola la Verità dell’essere.
Questa sera si parlerà del dolore degli innocenti, prendendo spunto da un articolo sul quotidiano “Il Foglio” dove con vari interventi di diversi studiosi si cerca di dare una spiegazione al dolore degli innocenti.
Analizzando la Sacra Scrittura il dolore lo troviamo fin dai lontani tempi di Giobbe, uomo giusto, timorato di Dio, che subisce il dolore più grande della sua vita, quale la perdita dei figli, la perdita delle ricchezze.
Perde tutto fuorché la moglie che continua a torturarlo visto che lui non rinuncia nonostante tutto ad amare Dio ed avere fiducia in Lui. Nella Bibbia Giobbe rappresenta il timorato di Dio che accetta sia il bene che il male, perché fiducioso che Dio non lo abbandonerà.
È il giusto atteggiamento cristiano davanti al dolore innocente. È proprio del credente che crede in un ordine, in una razionalità, chiedersi il perché del male innocente se tutto è nelle mani di Dio. L’ateo proprio perché non crede in Dio non si pone questa domanda perché per lui è tutto caos, è tutto casuale, il male capita come capita il bene, tutto in maniera casuale.
Al contrario se si crede in Dio la domanda: “Può Dio prendersela con gli innocenti, desiderare tutto questo male” ha senso? Il biblista mons. Ravasi, uno degli interlocutori, ci dice che niente come il dolore sintetizza la domanda “chi è l’uomo?”. Con il Vangelo ci dice che Dio è venuto non per spiegare la sofferenza ma a riempirla con la sua presenza in Gesù Cristo, Figlio dell’uomo.
È Gesù Cristo che ci svela l’umanità. È una domanda ipocrita quando vogliamo addossare a Dio la causa del male innocente, cercare a tutti i costi il “capro espiatorio”.
Il cristiano ragiona su due ipotesi: o Dio ha creato tutto e allora Lui è il responsabile sia del bene che del male, o Dio non ha creato tutto e può essere presente nella sofferenza del mondo. E perché Dio ha creato il mondo imperfetto, non lo poteva creare perfetto e se è presente in questa imperfezione è perché Lui sta espiando il suo peccato? Adesso consultiamo il Vangelo di Giovanni 9 pag. 853 “Il cieco dalla nascita”.
I discepoli chiedono a Gesù: “Rabbi, chi ha peccato, Lui o i suoi genitori perché nascesse cieco?”. Risponde Gesù: “né lui ha peccato, né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio”.
Sembra possibile un Dio ingiusto, che ha bisogno del male per manifestare le sue opere? Anticamente quando furono scritti in aramaico i Vangeli, non esisteva la punteggiatura; poi con le traduzioni dal greco in latino, si sono usati i segni della punteggiatura come il traduttore interpretava il testo nel contesto dell’opera, secondo il suo criterio.
Adesso proviamo a mettere il punto dove c’è la virgola per separare le due frasi “né lui ha peccato né i suoi genitori”. “Affinché si manifestassero in lui le opere di Dio”. Non c’è più un legame tra le due frasi, non c’è più la sofferenza come causa necessaria perché si manifestino le opere di Dio. Il male e il bene sono due facce della stessa medaglia.
La realtà si manifesta nel bene o nel male, non c’è responsabilità di Dio di come la vita si presenta. Gesù non risponde cercando la causa alla malattia del cieco, spiega che Dio manifesterà la Sua gloria in quella malattia.
Infatti, Gesù che si stava recando a Gerusalemme per subire il martirio, incontrando il cieco manifesterà con la Sua guarigione miracolosa la gloria di Dio. Anche in Gesù crocifisso, vittima innocente di tutto il male del suo popolo, Dio manifesta la sua gloria nella resurrezione.
Gesù non si sottrae al male, alla logica della vita umana perché è così che si svela la storia umana che è un mattatoio, in cui l’uomo è carne da macello, ma è proprio in questo dilagare del male che si manifestano le opere di Dio. Quindi Gesù non spiega le cause della cecità, è così che va alla natura, ora sana ora malata, senza un responsabile di questo dolore. Tant’è che anche Cristo è impotente dinanzi al suo destino di passione e morte in croce.