Il Cristianesimo non ha altra funzione se non quella di essere una critica radicale a tutto e a tutti. Questa è la funzione del Cristianesimo! Critica radicale, spietata e severa a tutti e a tutto, a cominciare dalla critica alla cultura.
L’altra volta vi parlai delle idee materiali: mi accorsi che qualcuno stentava a ricevere, a raccogliere, a recepire questo messaggio. Come fa un’idea ad essere materiale? Cos’è la materialità? La materialità non è esattamente la negazione dell’idealità.
Vi dissi che le tre idee materiali sono: l’idea dell’Assoluto, l’idea di Esterno e l’idea di Interno.
L’idea dell’Assoluto che diventa poi idea di Dio, l’idea di Esterno che viene poi elaborata sotto forma di idea di Mondo e l’idea di Interno che viene poi elaborata come idea dell’“io”. Così abbiamo la teologia, la mondologia e la psicologia.
Mi sono accorto della difficoltà. Preferisco che le osservazioni ognuno me le faccia privatamente, in separata sede, personalmente, perché le osservazioni che qualcuno può fare possono anche non interessare l’altro. Non solo: ognuno nelle osservazioni, nelle obiezioni, in quello che dice è molto influenzato dal suo vissuto particolare e quindi, quando io vado a rispondere, corro il rischio di toccare un po’ troppo il vissuto della persona che mi fa l’obiezione, scatenando delle reazioni non tanto belle. Ecco perché è meglio che certe osservazioni e certe obiezioni me le facciate privatamente, in separata sede, a quattr’occhi, così possiamo leggerci negli occhi e capirci meglio, perché – ripeto – nelle obiezioni c’è molto di vissuto e di particolare: è inutile mettere il proprio vissuto in piazza.
Comunque, mi sono accorto da alcune osservazioni fattemi che c’erano difficoltà a capire in che cosa consistesse la materialità delle idee.
Io vi parlai di immediatezza, di materialità intesa come immediatezza; invece a voi la materialità fa venire subito l’idea di ciò che viene toccato, sentito, visto, gustato. Materiale per voi è ciò che è oggetto dei cinque sensi, ma non è questo il concetto di materiale. Questo è il concetto di sensibilità, non di materialità, non potete confondere la sensibilità con la materialità.
Per materialità s’intende ciò che è immediato, ciò che non può essere utilizzato, non può essere sottoposto a un processo di revisione mentale, perché appena lo sottoponi a un processo mentale lo fai diventare subito “altro”.
Provate a sottoporre a un processo mentale l’idea di Eterno, di Assoluto; che cosa diventa? Diventa un Dio delle religioni, il Dio tappabuchi che deve garantire l’ordine, la bontà, la giustizia, e tutte queste fesserie, un Dio che deve essere il perno, il centro di tutte le favole che ci raccontiamo.
Idea materiale vuol dire idea immediata, che non posso mettere in un circuito mio personale e costruirci sopra. C’è, invece, molta confusione fra “materiale” e “sensibile”.
Come si fa a dirimere la questione? Si dirime andando a trovare l’etimo, la radice della parola. La parola “materia” ha a che fare con “mater”, cioè con madre; radice della parola è “matar”, che vuol dire “principio”, “seme”, cioè ciò che è immediato. Non si tratta di un principio che poi viene principiato e quindi un principio che si distacca da sé per diventare altro, ma di un principio che deve essere lasciato lì nella sua immediatezza, perché appena cominci ad usarlo lo rovini, lo fai diventare altro.
E allora come nasce la cultura? La cultura (la parola “cultura” vuol dire “coltivazione”, dal verbo latino “colo”, che vuol dire “coltivare”) consiste nel prendere questi principi che non possono essere usati, che non possono essere mediati, e nel farli diventare altro. Il principio è un “principio”: è immediato, è indimostrabile, non si dimostra un principio. “L’Essere è, il non-Essere non è” – principio di Parmenide -: cosa vuoi dimostrare?!? È così ovvio, è così evidente, è così chiaro che, non appena cominci a commentarlo, lo scassi, lo rovini, lo fai diventare altro.
Il principio è ciò che deve essere lasciato nella sua immediatezza, pena la corruzione del principio stesso. Se, invece, prendiamo questi principi e li coltiviamo, li mettiamo in coltura, cosa viene fuori? Viene fuori la cultura.
La cultura è una coltivazione di ciò che non può essere coltivato, la cultura è utilizzazione di ciò che non può essere utilizzato. Le tre idee materiali, cioè immediate, sono dei principi, sono indimostrabili: l’idea dell’Assoluto, dell’incondizionato, l’idea di Interno e l’idea di Esterno sono delle idee materiali, immediate, dei principi assoluti che non sono dimostrabili, perché non hanno bisogno di essere dimostrati. Che cosa c’è da dimostrare?! Stanno! Non appena li vuoi dimostrare, li metti in coltura e già diventano altro.
La cultura, o coltura, che abbiamo coltivando questi principi, può essere, a seconda dei terreni in cui coltiviamo, una cultura, o coltura, statica o una cultura, o coltura, dinamica.
Quali sono le culture, o colture, statiche? Quelle dell’Oriente. Sono statiche perché è tanto l’orrore, la paura, il timore che hanno dinanzi a queste idee “madri”, immediate, materiali, che preferiscono scomparire loro per lasciare il posto a queste idee. Prendiamo, per esempio, la cultura buddista. Per il buddismo l’“io”, la coscienza, il particolare sono solo pure illusioni: esiste solo il “Nirvana”, l’Assoluto. Perciò è necessario che l’individuo, la persona scompaia dinanzi a questo Nirvana, a questo Assoluto: prima scompare e meglio è.
In che modo la cultura orientale (ho fatto l’esempio del buddismo, ma tutte le culture orientali hanno questo tema di fondo), coltiva queste idee immediate, queste idee materiali? Le coltiva sopprimendo, uccidendo tutto ciò che non è immediato.
Questo è un modo per reagire alla paura che si prova dinanzi a certe idee immediate, materiali.
Tutti abbiamo provato paura dinanzi all’idea dell’infinito: come ci siamo sentiti una notte sotto un cielo stellato, in silenzio?
Pensate a “L’Infinito” di Leopardi: “Ma sedendo e mirando, interminati spazi di là da quella, e sovrumani silenzi, e profondissima quiete io nel pensier mi fingo; ove per poco il cor non si spaura”. Ci prende un brivido a pensare a questi infiniti mondi; il senso dell’infinito, dell’assoluto, dell’incondizionato, mi fa sentire talmente inesistente che ho paura, il mio cuore si spaurisce, si atterrisce.
E allora qual è il modo per sottrarsi a questa paura esistenziale, alla paura di essere un niente nei confronti di questo incondizionato? Sparire, annullarsi. Le culture orientali tendono appunto all’annullamento. L’annullamento è un meccanismo di difesa di fronte a queste idee materiali. Questa – ripeto – è una matrice comune a tutta la cultura orientale.
La cultura occidentale fa un altro tipo di coltivazione. È una cultura dinamica che inventa il concetto di Storia. È dinamica perché crea un processo, un movimento in cui tutte queste idee materiali, cioè immediate, vengono alleggerite, stemperate, imborghesite, mediate e così diventano digeribili. Come si fa a sopportare l’idea di un Infinito, di un Assoluto incondizionato, nemmeno rappresentabile? Immettendo tale concetto in un processo storico, facendolo diventare funzionale al nostro progetto umano, alla Storia. In altri termini basta mettere l’idea materiale di Dio nel circuito umano, nella Storia, in questo processo all’infinito che già quest’idea diventa perfettamente accettabile. E allora cominciamo a sentire frasi tipo: “Dio Padre ci vuole bene”, “Dio ha un disegno su di noi”, “Dio ha un progetto su di noi”; quante belle favole ci diciamo. Come se Dio un giorno ci avesse detto che ha su ognuno di noi un suo progetto, un suo disegno! È chiaro che facciamo così perché l’unico modo per mediare il rapporto tra me e l’Assoluto, per renderlo più accettabile, è quello di rendere Dio funzionale a me.
Questa non è più l’idea materiale di cui vi parlavo, ma è diventata un’“idea formale” cioè costruita.
“Materiale” – ripeto – non significa “sensibile”: la confusione è proprio fra questi due termini. Quando voi dite, per esempio, “che materia stai studiando?”, per caso intendete dire “che sensibilità stai studiando?”! Non credo. Oppure: “in quante materie sei stato rimandato?”, “che materia insegni?”. Che c’entra questo con la sensibilità?! Che cos’è un oggetto materiale? Che cos’è un oggetto formale?
Ognuno di noi, per esempio, è un oggetto materiale e formale: è oggetto materiale perché è immediato; è formale perché, pur essendo un solo oggetto materiale, può essere dieci oggetti formali, in quanto noi, unico oggetto materiale, possiamo essere, per esempio, oggetto formale di tante scienze diverse (della matematica, della fisica, della chimica, della teologia, della zoologia, dell’antropologia, della psicologia, della psicoanalisi, della sociologia, dell’economia). Sono tanti oggetti formali, ma l’oggetto materiale è unico. Questi oggetti formali multipli, pur nello sforzo di coglierci, in realtà sono sempre dei saperi molto riduttivi, perché noi rimaniamo molto al di là dell’economia, della teologia, della fisica, della chimica, dell’antropologia, ecc. L’individuo rimane sempre e solo sé stesso e non può mai essere ridotto ad una formalità, né a due, né a tre, né a quattro, né a cinque, perché è un oggetto materiale, immediato.
Purtroppo, il concetto di “materialità” inteso come “sensibilità” è un uso ideologico della parola, tipico della cultura occidentale, ma la parola “materia” vuol dire “principio”, non vuol dire “sensibilità”, non ha a che fare con i sensi.
Diceva un grande filosofo: “La filosofia eterna nasce dal terrore, la filosofia moderna nasce dal dubbio”. Il dubbio è uno spazio che creiamo tra noi e questa idee materiali, uno spazio in cui riusciamo, più o meno, ad addomesticare, a trattare, a mediare, a mettere in rapporto dialettico queste idee con altre idee, allo scopo di renderle più digeribili. La cultura orientale propone come soluzione l’annullamento dell’individuo; la cultura occidentale, invece, inventa il concetto di Storia, immette le idee materiali in questo processo chiamato “Storia” e le fa diventare “altro”.
L’invenzione dell’Occidente – è questa la critica che faccio alla cultura occidentale – è il concetto di Storia. La Storia è un concetto inventato dall’Occidente, espressione di una cultura dinamica. Ma alla base della stessa cultura dinamica occidentale c’è la paura delle idee immediate.
Il problema è che il concetto di Storia, una volta messo su, ha le sue esigenze, ha delle gravi conseguenze. Pensate a che cosa è diventata l’idea immediata di Assoluto, di Dio, una volta inserita nel processo storico. Pensate a che cosa è diventata l’idea immediata di Esterno una volta trasformata nell’idea di Mondo: la grandezza del Mondo, la potenza del Mondo, il potere. Pensate a che cosa è diventato il concetto di Interno quando è stato elaborato come “io”: non riusciamo più a liberarci da questo pronome personale! Una volta inventato il concetto di Storia non ci si può più tirare indietro.
La Storia è un processo sempre rivedibile: se tutto è Storia, tutto è sottoposto, per principio, a revisione.
C’è stato, recentemente, in Italia un dibattito a proposito della scuola privata. A questo dibattito hanno partecipato parecchi pensatori importanti e tra questi un grande filosofo italiano, ormai novantenne: Norberto Bobbio. Uomo benemerito, perché ha ammesso certi peccati di gioventù – adesione al fascismo, ecc – contrariamente ad altri che non l’hanno fatto. Bobbio è intervenuto in questa polemica e ha voluto spiegare la differenza tra la cultura cristiana, o cattolica, e la cultura laica. Qual è la differenza? È la differenza tra fede e ragione.
I cristiani hanno una cultura basata sulla fede; la cultura laica, invece, è basata sulla ragione. Qual è la differenza? La fede è fatta di sistemi chiusi, dogmatici, irrivedibili, immutabili, non sottoposti a revisione storica; la cultura laica, invece, è basata sulla ragione. La ragione non è fatta di principi o di sistemi non rivedibili, ma, per principio, la ragione ammette che tutto possa essere rivisto.
Ora, a parte il concetto di fede che, evidentemente, non è chiaro a Bobbio (ma non è colpa di Bobbio, bensì di noi preti che tante volte presentiamo la fede come se fosse una cosa misteriosa, oscura, quando invece la parola “fede” vuol dire “evidenza”, “chiarezza”), dice Bobbio che mentre i cristiani si basano sulla fede, che è fatta di sistemi e principi chiusi, immutabili, non rivedibili, non reversibili, la cultura laica si basa sulla ragione, che non è fatta di principi chiusi, ma sottoponibili continuamente ad una dialettica, ad un superamento continuo.
Allora viene da chiedere a Bobbio: gli argomenti che tu usi per combattere o controbattere le tesi dei cattolici sulla scuola, sono sicuri?
Se li usi sono sicuri, sono certi. Ma perché sono sicuri e certi? Per essere coerenti con il concetto di Storia, che la cultura laica ha sposato, ogni principio, ogni argomento che tu affermi, è un argomento sottoposto a revisione: non si può essere sicuri neanche un istante della bontà di quell’argomento o del fatto che il tuo argomento sia migliore di quello usato da un cattolico.
Questo è il peccato originale della cultura laica: ha creato il concetto di Storia, ma non vuole accettare tutte le conseguenze che tale concetto comporta. Dire che tutto è Storia è come dire che i principi immediati non ci sono più, che tutto è sottoposto a divenire, che una cosa diventa un’altra, necessariamente, per cui non c’è più niente di sicuro, non c’è più un punto stabile. Spesso si sente dire che non ci sono più i valori: ma se tutto è Storia, se non c’è più niente di sicuro, i valori devono morire.
Quando Geronimo, capo dei pellerossa, la notte prima dell’ultimo combattimento andò dal Generale Custer, gli disse: “perché ce l’hai con noi pellerossa, che cosa ti abbiamo fatto? Perché ci vuoi sterminare, perché ci vuoi uccidere?”. Rispose Custer: “Io non ce l’ho con voi, è soltanto che la Storia siamo noi e voi siete già passati, vi dovete togliere di mezzo”. In nome della Storia, del processo storico, si giustificano le più grosse atrocità, perché “se tu sei il più debole ed io sono il più forte, allora io sono la Storia”. La Storia è ciò che vince.
La cultura laica entra in contraddizione, ma non lo vuole riconoscere. Se tutto è Storia, se non c’è niente di stabile, tu, laico, non puoi neanche discutere con un altro e sai anche che, se per caso riesci a vincere con un altro nella discussione, è solo perché l’hai sopraffatto di parole, non di verità. È un fatto di pubblicità: la pubblicità riesce a far passare un prodotto invece di un altro non perché quel prodotto sia migliore, ma perché ha trovato un modo migliore per aggirare, per convincere la gente.
I greci sapevano bene queste cose: la chiamavano “argomentazione”. Che cosa è l’“argomentazione”? L’argomentazione è una tecnica usata dagli avvocati per far apparire vero ciò che è appena probabile (la parola “argomentazione” deriva da “argon”, “argento”: far apparire lucido, luminoso come l’argento ciò che invece non è luminoso affatto, questa è la storia).
Nella dialettica non vince la verità, vince chi trova – come diceva Machiavelli – o il leone o la volpe, o l’astuzia o la forza, ma non la verità.
Quindi, il concetto di Storia è quanto di più deleterio l’Occidente potesse inventare, ma, così facendo, si è dato la zappa sui piedi.
L’Occidente ha inventato il concetto di Storia per difendersi dalle idee materiali. Non sopportiamo che una cosa sia quella che è, dobbiamo metterci le mani, la dobbiamo subito ridurre a noi, dobbiamo mettere sempre la nostra firma, dobbiamo costruire, siamo dei costruttivisti, siamo dei formalisti.
Tornando a Bobbio: se è convinto che i suoi argomenti siano veri, anche lui ha una fede, anche quella laica è una fede se è convinta della veridicità dei propri argomenti. Che cosa è, allora, la fede?
Secondo l’accezione comune (non etimologica) la fede è la volontà che le cose stiano come io voglio che siano: io voglio che siano così, credo che stiano così, quindi se dico “credo” vuol dire “voglio che sia così”. Perciò, anche la cultura laica, quando usa certi argomenti, sta nella fede, cioè nella volontà di interpretare, nella volontà che dice “io voglio che sia come io desidero che sia”. Ecco perché sono disonesti quando parlano: sono disonesti, perché, pur sapendo che non c’è niente più di sicuro, nessun principio sicuro, parlano come se fossero sicuri di tutto, credono di essere sicuri.
Ricordo quando lessi il libro “Avere o essere?” di Erich Fromm. Si tratta di una volgarizzazione, di una “americanizzazione” della psicoanalisi freudiana ad uso e consumo dei piccoli borghesi americani, i quali hanno solo la coscienza di essere borghesi, ma non quella di essere piccoli. Alla fine del suo libro, Fromm scrive “il mio credo”: “io credo nell’uomo”! È molto scientifica questa persona se crede nell’uomo, perché “credere”, nell’accezione comune, è la volontà di vedere quello che si vuole vedere. La fede – non come la intendo io – è la volontà che le cose stiano come io desidero che stiano.
Alla base di questa accezione di “fede” c’è sempre il dubbio, però, che le cose non stiano veramente come io voglio che siano: ecco perché questa fede non può mai escludere il dubbio e il dubbio non può mai escludere la fede. Il dubbio ha bisogno della fede per poter fare qualcosa, per potersi muovere, ma anche la fede ha bisogno del dubbio, perché se la fede non avesse più il dubbio, sarebbe certezza: staremmo dinanzi alle idee materiali e non potremmo più mettere la nostra firma su tutte le cose, non potremmo più costruire il Mondo.
Quindi, la categoria della Storia (la Storia come la intendeva il Generale Custer) è molto pericolosa, è a rischio.
Le discussioni sulla Storia si vanno facendo sempre più pertinenti. Un famoso storico tedesco, Nolte, ha scritto un libro dal titolo “L’esistenza storica”, in cui parla del “dopo storia”. Nolte, personaggio un po’ strano privatamente, ma grandissimo storico, ha avuto il coraggio di porsi la domanda: “che c’è dopo la storia?”. In questa domanda si riallaccia ad un altro grande uomo che si poneva lo stesso quesito, ossia Marx.