Vi devo fare una confessione, una volta tanto il prete si confessa; in realtà mi confesso una volta al mese, non oltre: mi confesso una volta al mese perché mi ritengo capace di peccare, so peccare scientificamente perché conosco bene il limite, so come si pecca e come non si pecca: se uso il pronome personale “io”, prendetelo come una convenienza linguistica, perché non è che ci creda al mio “io”.
L’“io” è quel soggetto che diamo a tante azioni diverse solo per capirci: la parola “io” è per me solo una comodità linguistica, la uso perché mi è comodo. In realtà al mio “io” ci tengo quanto possa tenerci alla cacca che ho fatto stamattina.
Quindi, se uso la parola “io” è solo per comodità linguistica, per capirci e per dare una parvenza di soggetto a tante azioni che vanno in cerca, appunto, di un soggetto. Come nella commedia di Pirandello “Sei personaggi in cerca d’autore”, i miei personaggi sono le mie azioni che cercano sempre un autore per responsabilizzarlo, ed io per comodità gli offro questo autore, “io”; ma appena glielo offro mi faccio da parte, perché è chiaro, la parola “io” è semplicemente ridicola. Ridicola era la parola “io” sulla bocca del fariseo: “Signore, ti ringrazio perché [io] pago le decime, [io] rispetto il Sabato, [io] aiuto i poveri, [io]…”. Il fariseo era uno sciocco, uno stupido, ma stupido non perché usava il pronome “io”, giacché per esigenze grammaticali e quindi linguistiche doveva pur usarlo, ma perché ci credeva veramente: in questo senso era stupido. Il fariseo, però, era anche ipocrita, perché sapeva. L’ipocrita è colui che dice una cosa e ne pensa un’altra. Cosa pensava il fariseo? Il fariseo era buono, era un pubblicano camuffato, sapeva in fondo che l’ipocrita ha una coscienza scissa, separata dal suo “io”; la coscienza è una cosa, l’“io” è un’altra: quindi il povero fariseo era una specie di pubblicano mancato, che voleva dire sempre “io…, io…, io…, io…”, ma la coscienza gli ricordava che quell’“io” suonava in maniera così falsa che più falsa non si può.
Questa parabola, la parabola del fariseo e del pubblicano, è molto importante ai fini della critica culturale.
Cosa intendo per critica culturale? Se voi siete venuti qui pensando di sentire argomenti “di cultura” sbagliate. Perché “della cultura” è un genitivo. I genitivi sono soggettivi oppure oggettivi. Nel nostro caso deve essere inteso in senso oggettivo. Se dico “l’amore del padre”, “del padre” è un genitivo soggettivo se è il padre che ama; se invece il padre è oggetto dell’amore da parte dei figli, il genitivo è oggettivo.
Ora, quando dico “critica della cultura”, intendo “critica della cultura” in senso non soggettivo – la cultura non è capace di criticare – ma in senso oggettivo, cioè la cultura è l’oggetto della critica.
Quindi, se pensate di sentire discorsi culturali, da salotto, tipo “Costanzo show”, sbagliate di grosso. Argomenti culturali, se saranno presi, saranno presi perché bisogna giudicare le basi, sapendo da dove parte, come si forma e a che cosa serve la cultura. Personalmente non sono un tipo culturale, perché chi intende essere radicale non può essere culturale. La persona radicale è come il cane: su ogni albero che incontra, su ogni ruota di macchina, fa il suo bel servizio; non perché ha il gusto di fare il servizio, ma perché è proprio la ruota, è l’albero che si presta. Così, è proprio la cultura che, se viene grattata un po’, ti invita a farci sopra un bel servizio. È la stessa cultura che si presta, che presta il proprio fianco ad una critica.
L’ultima frontiera della cultura è il “multiculturalismo”, cioè un rispetto di tutte le culture. Proprio quando si parla di rispetto di tutte le culture dovete capire che qualcosa puzza, vuol dire che ogni cultura comincia già a riconoscere il suo limite, la sua determinatezza storica, cioè il fatto di appartenere a determinate coordinate spazio-temporali e tutto ciò che appartiene a spazio e tempo deve mostrare necessariamente i suoi limiti. Ecco perché, per un atto di onestà, si parla di multiculturalismo, di rispetto tra tutte le culture. Il problema del rispetto delle culture si scontra col problema della verità: ognuno di noi, sotto sotto, è convinto di essere l’unico detentore della verità. Pensate al rapporto tra marito e moglie: marito e moglie hanno due culture diverse, perché uno è maschio e l’altra è femmina. La cultura comincia proprio dalla differenza sessuale. È inutile dire: “bisogna dare spazio all’altro (il marito alla moglie, la moglie al marito)”, “bisogna venirsi incontro”, “bisogna accettare l’altro così com’è”; si tratta di due culture diverse, perché il modo in cui una donna costruisce il suo mondo, le sue rappresentazioni mentali, è diverso da quello in cui l’uomo costruisce le sue rappresentazioni mentali. È chiaro che le due parti si dovranno scontrare. Difatti le persone di buon senso dicono sempre: “eh, qualcuno dovrà cedere”, così finisce la storia!
Questo accade tra marito e moglie, che hanno dei figli, hanno degli interessi in comune, la casa, l’immagine da dare agli altri, l’immagine di unità familiare, ecc., figuriamoci cosa può succedere quando si tratta di popoli, di culture, di etnie diverse.
Il rispetto delle culture è impossibile! Cominciamo dalle culture minime, minimali, quelle che sono in famiglia; la cultura dei figli, per esempio: fino a che punto un genitore deve entrare nella cultura del figlio o della figlia e proibire certi aspetti?
“La mia libertà, disse uno, finisce dove comincia la tua”. “No, rispose l’altro, la tua libertà comincia dove finisce la mia.”. Ed il primo, allora, chiese: “ma dove finisce la tua?”; ed il secondo: “questo non lo so!”.
Queste formulette, “la mia libertà finisce dove comincia la tua, la tua libertà comincia dove finisce la mia”, sono dei palliativi, delle prese in giro.
Anche la nostra cultura ha i suoi limiti, qui intendo la cultura in senso antropologico, non la cultura intesa come antologia.
Se voi andate a parlare con una comunità, con un gruppo culturale di ladri, quale sarà la loro antologia dei pezzi migliori? Arsenio Lupin e qualche altro. Se andate a parlare con un gruppo culturale di sadici, impazziranno per il marchese de Sade; se andate a parlare con i masochisti, per il conte Masoch, ecc. Ognuno ha la sua antologia, il suo fior fiore, il meglio, il modello a cui si deve ispirare.
Quindi la cultura mostra tutti i suoi limiti proprio quando dice che è necessario il rispetto delle altre culture.
Giustamente, per me, ci possono stare tutte le culture che vogliono, non m’interessa, non dico “tu devi esistere”, “tu non devi esistere”.
Se la cultura islamica, per esempio, prevede l’uccisione dei preti, pazienza, moriremo, un giorno o l’altro capiterà a tutti, non posso farci niente.
Eserciteremo una critica nel senso greco del termine. “Krisis” significa “revisione sui fondamenti”, perché, l’ho detto l’anno scorso e lo ripeto, questo è un principio che ritengo importantissimo, è necessario distinguere la verità logica dalla verità dell’essere (ontologica).
Cos’è la verità logica? È il sistema logicamente coerente. Come si forma un sistema? Un sistema si forma premettendo delle proposizioni che per “ispirazione divina” sono vere, si ammette che sono vere. Queste proposizioni generali contengono tante conclusioni. Ora, mediante la logica, questo è il sistema deduttivo, ricavo da queste grosse proposizioni tutta la ricchezza che sta dentro di esse. Se le ricavo in maniera coerente, logica, allora dico che il sistema, dal punto di vista logico, regge, è “vero”.
Facciamo un esempio. Hitler diceva: “la razza ariana è la migliore, la razza ariana merita di vivere e di espandersi sempre più, perciò tutto ciò che permette alla razza ariana di propagarsi è giusto. La razza ebrea non è ariana, la razza ebrea può contaminare la razza ariana, perciò è giusto eliminare gli ebrei”.
Questo è un sistema logico? Certo che è logico, però non è vero, almeno per me: per Hitler era anche vero. Non è vero, perché le premesse non sono vere.
Un sistema può essere logico, coerente, ma, dal punto di vista della verità dell’essere, falso.
Ora, fare la critica della cultura significa andare al di là della logicità del sistema culturale, andare al di là dell’articolazione per cui tutto sta al posto suo, andare a sondare i fondamenti, le proposizioni iniziali, da cui poi dipende tutto il sistema.
La cultura è una cosa seria: il problema è proprio che è seria! A me tutte le cose serie danno un po’ di preoccupazione, perché esse, solitamente, sono un po’ a rischio, coprono qualcosa.
In questa critica, in questa krisis, sarò deciso, feroce. Sono infastidito dalle proteste dei “ragazzini a cui qualcuno ha detto che Babbo Natale non esiste”. Che voglio dire? A volte mi vengono fatte obiezioni del tipo: “le cose che dici fanno male, le persone più fragili, più deboli, più piccole potrebbero rimanere traumatizzate dalle cose che tu dici!”. Queste sono le proteste dei “ragazzini a cui qualcuno ha detto che Babbo Natale non esiste”. Sono infastidito da queste cose; le accetto, bonariamente, ci rido sopra, perché ognuno può dire quello che vuole.
Una volta in un’omelia dissi che la scienza si dibatte tra due grosse correnti: la corrente “innatista”, o “genetista”, e la corrente “ambientalista”. I genetisti, o innatisti, dicono che tutto sta nei geni; gli ambientalisti, viceversa, ritengono che l’essere umano sia una tabula rasa (una lavagna, una tavoletta di cera, su cui l’ambiente mette tutti i suoi segni). Questi ultimi si rifanno ad Aristotele.
È chiaro che sono concezioni opposte. L’uomo è intelligente perché è l’ambiente che l’ha fatto diventare intelligente o perché aveva già il gene dell’intelligenza?
Le conseguenze di questo dibattito non sono da poco, perché, per esempio, se accettiamo la tesi innatista, non ce la possiamo prendere con chi è cretino. Se, invece, accettiamo la tesi ambientalista, allora devo dare la responsabilità all’ambiente e non posso responsabilizzare la persona. Si scarica tutto sulla società, sul gruppo e sul gruppo primario che è la famiglia.
È evidente come la diatriba tra genetismo e ambientalismo non sia da poco, è di grandissima importanza, perché decide le sorti dell’educazione, della formazione.
Per quanto mi riguarda, propendo per il genetismo.
Ma allora la funzione dell’ambiente qual è? È quella di selezionare i geni, cioè quelle strutture di fondo che sono alla base di tutte le diverse crescite (“geni” nel senso di “cromosomi”). Sono sì per questa concezione genetista, ma non sono razzista, perché l’idiota ha tutto il diritto di esistere: l’essenziale è che si iscriva all’albo degli idioti, cioè che dica “io sono un idiota”, così lo tratto come tale, non mi dà fastidio, lo rispetto, lo faccio vivere, lo aiuto a rimanere idiota, lo iscrivo anche al sindacato degli idioti.
Quindi, propendo per la soluzione innatista o genetista, per cui vi dico che voi siete qui non per fare salotto: l’intento è che questi nostri corsi siano una vera e propria scuola, un ambiente in cui i geni più forti, più intelligenti vengono selezionati.
Come dicevo la sera del 2 Novembre, se questi incontri si fanno, se c’è questa partecipazione, questo gusto di partecipare, è perché un gruppo di ragazzi e ragazze, prima solo universitari, ora anche non universitari, ragazzi di scuola media superiore ed anche persone adulte, mi danno una mano notevole, sono l’infrastruttura che tiene su tutta questa sovrastruttura e questa infrastruttura viene selezionata ferocemente, selezionata tramite la paura. La paura non dei fantasmi, la paura della verità, perché la verità è chiaro che fa paura. Quelli che tremano, ma resistono al tremore e guardano in faccia alla paura, rimangono; quelli che invece cominciano a tremare e si squagliano, se ne vanno, vengono selezionati. Tramite la paura che la verità suscita cerco di selezionare. La paura è (a parte la collaborazione che mi danno tutti questi ragazzi e uomini e donne) la mia grande collaboratrice, la prima collaboratrice; la paura della verità, si capisce, non la paura di me.
In questi corsi provvederò sempre più, attraverso il discorso che farò, a selezionare i geni migliori che stanno dentro tutti i presenti, per vedere fino a che punto resistete e fino a che punto non resistete.
Quindi, le proteste dei “ragazzini a cui qualcuno ha detto che Babbo Natale non esiste” per me sono sintomatiche, sono un sintomo della paura che suscita la verità.