L’esegesi biblica e la fede: Due termini in conflitto?
La scelta di trattare questo argomento è dovuta alla diffusa convinzione che questi due termini, “esegesi biblica” (cioè lo studio scientifico della bibbia, d’ora in avanti semplicemente “esegesi”) e “fede” (intesa la fede del cristiano) siano in forte tensione, quasi che l’una escluda l’altra… Non che questo sia sostenuto da testi magisteriali, anzi, essi ribadiscono tante volte che è vero il contrario, pur mettendo in guardia da possibili deviazioni, ma è presente a livello di sentimento diffuso tra molti credenti, tra i quali non pochi ministri ordinati (malgrado lo studio della teologia e dell’esegesi nelle facoltà universitarie), predicatori, catechisti e laici impegnati. Da dove nasce il problema?
L’esegesi scientifica della Bibbia
L’esegesi scientifica della Bibbia (qui si intende soprattutto il cosiddetto “metodo storico-critico”) ha come presupposto che i testi biblici non sono semplicemente piovuti dal cielo come scritti sacri, ma hanno una genesi ed un’evoluzione storica. Perciò per comprendere pienamente un testo occorre conoscere, o almeno cercare di conoscere, la sua preistoria (l’ambiente in cui è nato), il suo genere letterario (se è una cronaca, un racconto didattico, una poesia, ecc.) e l’opera di elaborazione di quelli che hanno raccolto e messo per iscritto le fonti orali o gli scritti precedenti. Il fine è soprattutto quello di comprendere il significato che l’autore originario intendeva comunicare ai suoi lettori o ascoltatori, di stabilire cioè con un sufficiente grado di certezza qual era la sua intenzione nel rivolgersi con questo a quei destinatari originari. Perché è importante, anzi necessario questo studio storico? Perché il lettore di un’altra epoca, di un’altra cultura e in un’altra situazione di vita è naturalmente portato a mettere quel testo, in rapporto con il proprio orizzonte interpretativo, con il rischio concreto di fargli dire delle cose che quel testo non voleva dire: insomma, invece di fare “esegesi” (dal greco “ex-ago”, “tirare-fuori”, estrarre il significato, “interpretare”), si attribuiscono al testo dei significati che esso non ha e che sono determinati dalla soggettività del lettore (“en-ago”, mettere dentro, introdurre. Si comprende subito quanto questo sia cruciale nell’interpretazione del testo sacro, destinato a diventare norma di vita per il credente.
Il credente di fronte al metodo storico-critico.
Perché dunque capita che il credente si sente minacciato dall’esegesi moderna che adotta prevalentemente il metodo storico-critico? La ragione va ricercata nel fatto che essendo “critico” esso tende a mettere in dubbio molte cose, a riconsiderare e a volte a correggere delle convinzioni che sembravano far parte della fede.
Per fare qualche esempio:
Lo studio critico del Pentateuco (da Genesi al Deuteronomio) ha dimostrato che questi cinque libri, così come li abbiamo, non sono stati scritti da Mosè, com’era stato ritenuto tradizionalmente, ma contengono testi di diverse origini e di varie epoche successivamente raccolti insieme.
In modo analogo, lo studio critico dei vangeli ha dimostrato che essi non sono grandi racconti stesi ciascuno da un unico autore, il quale avrebbe riferito una testimonianza diretta di quanto Gesù aveva detto e fatto, ma contengono piuttosto una rassegna di piccole unità letterarie, provenienti dalla catechesi della Chiesa primitiva. Non è più possibile, quindi, fare la prova della storicità dei vangeli dicendo che sono l’opera di testimoni ben informati e perfettamente sinceri. La loro origine appare più complessa e la loro connessione con i fatti meno diretta.
La lettura letteralista – fondamentalista
Per chi ha una fede poco formata intellettualmente e non consapevole della posizione del magistero su tale argomento, può allora pensare che l’esegesi possa essere dannosa alla fede stessa, e perciò tende a prediligere – anche senza esserne consapevole, e quindi in buona fede – l’interpretazione “letteralista”, quella cioè che ritiene che la Bibbia vada letta e interpretata letteralmente i tutti i suoi dettagli, quasi come una fonte di conoscenza storica e ricettario di risposte pronte su tutti i problemi della vita. Se ad esempio si legge che Dio creò l’universo in sei giorni, qualsiasi altra spiegazione, anche scientifica, andrebbe dunque rigettata come errata e dannosa alla fede. Sappiamo dalla storia, a volte anche drammatica, dove ha portato questa ideologia (basti pensare al caso Galileo…).Un’attenta lettura del testo biblico mostra invece che è impraticabile – pena l’andare incontro ad una evidente contraddizione – e fuorviante il prendere alla lettera tutti gli enunciati della Scrittura, specialmente se estrapolati dal contesto in cui si trovano (è questo invece il modo di procedere di quanti praticano la lettura fondamentalista della Bibbia, come ad esempio i Testimoni di Geova).Due esempi tratti dai vangeli (ma se ne potrebbero citare molti di più): il discorso della montagna in Matteo (cap. 5-7) è ambientato appunto su una montagna (5,1); nel parallelo che troviamo in Luca (6,17.20-23) si parla invece di una pianura; i racconti delle apparizioni del Risorto tratte dai quattro vangeli, se confrontate tra loro, presentano variazioni così notevoli che rendono praticamente impossibile farli concordare tra loro. Dovremmo allora concludere che una “verità” annulla l’altra? O dovremmo squalificarle tutte? A questo condurrebbe – a rigor di logica – una lettura letteralista-fondamentalista.
Il principio dell’Incarnazione giustifica il metodo storico-critico
La Bibbia stessa, dunque, insegna al credente che non deve praticare una lettura rigida, ottusa, o concordista: “il carattere storico della rivelazione cristiana fa sì che una certa flessibilità mentale è necessaria per accoglierla adeguatamente”. In questo senso anche il papa afferma: “il Dio della Bibbia non è un Essere assoluto che, schiacciando tutto ciò che tocca, sopprimerebbe tutte le differenze e tutte le sfumature. Lungi dall’annullare le differenze, Dio le rispetta e le valorizza”. Il principio che giustifica e incoraggia l’uso del metodo storico critico nella lettura e nell’interpretazione della Scrittura è lo stesso dell’Incarnazione: come non penseremmo mai di negare la piena umanità di Cristo, così non possiamo negare o sottovalutare l’umanità della Scrittura; Dio non ha dettato la sua Parola nella Scrittura, ma l’ha sottomessa a tutti i limiti del linguaggio umano. Non c’è quindi incompatibilità tra fede e metodo storico-critico: “la Chiesa di Cristo prende sul serio il realismo dell’Incarnazione ed è per questa ragione che essa attribuisce grande importanza alla studio storico-critico della Bibbia”
Esegesi e fede: esigenza e aiuto reciproci
Ciò non toglie che possa darsi un’esegesi razionalista, che cioè esclude a priori qualsiasi evento soprannaturale, come sono ad esempio i miracoli, ed allora tale precomprensione impedirà una corretta esegesi del testo biblico che tratta appunto di questi interventi straordinari di Dio. Se è inevitabile, ed anche necessario, che ogni esegeta si accosti ai testi biblici con una propria precomprensione, bisogna dire che la giusta precomprensione è quella del credente: perché l’esegesi sia fruttuosa è necessario interpretare i testi nello stesso spirito in cui furono scritti, cioè nello spirito di fede: perché sia utile alla fede, bisogna che sia praticata nella fede. La fede allora non è affatto un ostacolo alla giusta comprensione dei testi biblici, anzi essa è di grande aiuto per una comprensione più esatta e più completa. In questo senso, come afferma ancora il papa, “è necessario che lo stesso esegeta percepisca nei testi la parola divina, e questo non gli è possibile che nel caso in cui il suo lavoro intellettuale venga sostenuto da uno slancio di vita spirituale”
Concludiamo con le parole di P. Vanhoye:
Può succedere che i rapporti tra l’esegesi e la fede siano di forte tensione, anzi di contrapposizione mutua, se l’esegesi parte da presupposti contrari alla fede o se la fede, rimasta infantile, non è in grado di integrare le conclusioni di una sana esegesi. Ma in linea di massima, i rapporti dovrebbero essere armonici, unendo tuttavia all’aspetto dell’aiuto reciproco quello dell’esigenza reciproca. La fede aiuta l’esegesi a interpretare correttamente la Scrittura ispirata, senza lasciarsi ” sballottare dalle onde e portare qua e là da qualsiasi vento di dottrina ” (Ef 4,14). D’altra parte, la fede esige dall’esegesi uno studio in profondità del messaggio principale dei testi biblici, che è un messaggio religioso. L’aiuto reciproco e l’esigenza reciproca assicurano alla fede e all’esegesi un dinamismo vitale, senza il quale la fede rischierebbe di diventare languida e l’esegesi vuota .